Quando si parla di Sindrome di Stoccolma si fa riferimento a un particolare stato di dipendenza, psicologica e affettiva, che si presenta in alcuni casi in vittime di violenza (fisica, psicologica o verbale). Il soggetto affetto da questa sindrome prova un sentimento di tipo positivo nei confronti del proprio aggressore che può spingersi fino a un sentimento di amore o alla sottomissione, instaurando in questo modo un rapporto di alleanza e solidarietà con il proprio carnefice.
L’espressione fu usata per la prima volta da Conrad Hassel, agente speciale della CIA, in seguito ad un caso di sequestro di persone avvenuto nel 1973, quando Jan-Erik Olsson, un uomo di 32 anni evaso dal carcere di Stoccolma, tentò una rapina e prese in ostaggio tre donne e un uomo. La prigionia e la convivenza forzata degli ostaggi con il rapinatore durarono oltre 130 ore al termine delle quali, gli ostaggi vennero rilasciati senza che fosse eseguita alcuna azione di forza e senza che nei loro confronti fosse stata attuata alcuna azione violenta da parte del sequestratore.
Durante la prigionia, come risulterà in seguito da dei colloqui psicologici, gli ostaggi temevano più la polizia che non gli stessi sequestratori. Durante il sequestro si verificarono vari episodi di gentilezza da parte dei rapitori. Le vittime tempo dopo raccontarono che, sebbene fossero legati e trattenuti in uno spazio ristretto, sentivano gratitudine nei confronti del carceriere, poiché le attenzioni ricevute da parte di quest'ultimo li indussero a sentirsi trattati con gentilezza, nonostante la circostanza.
Inoltre, quando poi gli ostaggi vennero liberati, quest'ultimi si preoccuparono dell'incolumità dei propri carcerieri. Anche successivamente le vittime continuarono a provare sentimenti contrastanti e apparentemente irrazionali nei confronti dei rapitori. Gli psichiatri spiegarono che gli ostaggi erano diventati emotivamente debitori ai loro rapitori perché non li avevano uccisi.
La letteratura scientifica che parla di tale condizione, ad oggi, è poca (Julich, 2005; Cantor e Price, 2007; Namnyak et al., 2008). Ci sono però dei segnali che ci permettono di identificare la Sindrome di Stoccolma. Come già accennato, vi sono sentimenti di amicizia o amore per l’aggressore da parte della vittima, che ripone anche fiducia verso lo stesso. Inoltre, la vittima prova paura per le forze dell’ordine; prova sentimenti di colpa per l’aggressore quando viene arrestato e, infatti, arriva a mentire per proteggerlo. Infine, non riconosce di avere una patologia e non vuole farsi aiutare.
Questo tipo di reazione sembra essere una risposta emotiva automatica ed inconscia al trauma, che può colpire soggetti di ogni sesso, età e senza distinzione socioculturale. La condizione patologica si può verificare in particolari situazioni di stress: quando vi è una grave e forte minaccia per la propria vita; in un contesto che comporta terrore e si percepisce anche un minimo sentore di gentilezza da parte dei sequestratori; in situazioni in cui non vi sono prospettive di salvezza se non grazie al proprio aguzzino e, infine, quando vi è impossibilità di fuga (Graham et al., 1995).
Quindi è possibile affermare che generalmente tale sindrome si articola in 3 fasi: in un primo momento si presentano sentimenti positivi per l’aggressore, circa tre giorni dopo l’inizio del evento traumatico o stressante; in seguito, si presentano i sentimenti negativi verso le autorità; infine, si costituisce una reciprocità di sentimenti positivi tra vittima e carnefice (Strentz e Ochberg, 1988).
Sebbene questo legame affettivo vittima-aggressore potrebbe sembrare un fenomeno misterioso, può essere spiegato facilmente. Infatti, in situazioni di forte stress, gli individui sono predisposti ad instaurare rapporti con altri soggetti per combattere le aggressioni esterne. Quindi, il sequestratore che non maltrattata in nessun modo la sua vittima, ma anzi la comprende ed assiste, diventa un alleato per combattere l’evento stressante.
Anche nel senso opposto, cioè dal punto di vista dell’aggressore, avviene lo stesso. Unica condizione imprescindibile è che lo stesso non abbia una personalità di tipo antisociale, ossia un quadro patologico che il DSM-5 definisce come insieme di inosservanza e violazione dei diritti altrui, che di norma si manifesta durante l’adolescenza o nella prima infanzia e continua durante l’età adulta. Diversamente, un sequestratore con un disturbo antisociale della personalità, non ha interesse nella vittima e non prova nessun senso di colpa. Anzi, è pronto ad abusare e perfino uccidere i propri prigionieri se ciò è nei suoi interessi.
La sindrome di Stoccolma ha importanti implicazioni per la comprensione del comportamento umano in situazioni estreme. È fondamentale che le forze dell'ordine e gli operatori sanitari siano consapevoli di questo fenomeno per poter intervenire in modo efficace e rispettoso delle vittime.
Infine, per quanto riguarda il trattamento della sindrome di Stoccolma è necessario un approccio multidisciplinare, che coinvolga psicologi, psichiatri e altri professionisti. La terapia può aiutare le vittime a elaborare l'esperienza traumatica, a ristabilire relazioni sane e a ricostruire la propria vita.
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