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Immagine del redattoreCarlo Trionfi

Giovani e social network: perché non possiamo semplicemente spegnere gli smartphone

Ci sono cose che “si sanno” e la speranza della conferma scientifica suona più come una mancata smentita. Succede per l’alcol (che tutti sappiamo fa male) e quando ce lo dice la scienza storciamo il naso, succede per il fumo che provoca il cancro in ogni sua forma (anche nei gusti caramellosi delle sigarette elettroniche) e oggi arriva la conferma anche sui diversi “si dice” sui social network. La sentenza lascia poco spazio alla fantasia: Pur riconoscendo i vantaggi offerti da certe piattaforme come spazio per connettersi ed esprimersi in modo creativo, il rapporto steso da Vivek Murthy, “SurgeonGeneral” negli USA, afferma infatti che «ci sono ampi indicatori secondo cui i social media possono apportare danno al benessere di bambini e adolescenti » . Tanto che il Doctor- in-Chief li definisce addirittura «principali motori di una crisi nazionale di salute pubblica». E chiede innanzitutto «nuove ricerche che ci aiutino a comprenderne fino in fondo i loro effetti sulle menti più giovani».

Nikola Jokic, leader dei Denver Nuggets, nell’intervista con la stampa dopo la partita che lo ha portato alla Finals ha dichiarato: “Mi stai chiedendo perché ho eliminato tutti i miei canali social? Beh perché sono semplicemente una perdita di tempo”. Noi non sappiamo se siano veramente una semplice perdita di tempo (al netto del fatto che a volte perdere del tempo fa parte delle attività legittime nelle 24 ore di una giornata), ma quel che siamo sicuri è che la presenza e l’utilizzo dei social network non è indifferente né per le nostre relazioni né per il nostro cervello. Esiste una teoria che sostiene che ognuno di noi riuscirebbe a mantenere in media solo circa 150 relazioni sociali stabili. 150 viene identificato con il numero di Dunbar, dal nome dell’antropologo britannico che ha condotto quello studio. In pratica il numero di Dunbar è una quantificazione numerica del limite cognitivo teorico che concerne il numero di persone con cui un individuo è in grado di mantenere relazioni sociali stabili, ossia relazioni nelle quali un individuo conosce l'identità di ciascuna persona e come queste persone si relazionano con ognuna delle altre. E’ evidente come i social facciano saltare il banco. L’ansia da relazione estesa a un numero potenzialmente infinito di contatti rischia di prendere il sopravvento. Tanto che lo studio che viene da oltre Oceano non lascia adito a dubbi: « Sulle conseguenze negative, si hanno già molte prove: diversi sono gli studi che stabiliscono legami tra l’uso incontrollato dei social e sintomi depressivi. C’è il rischio di indebolire l’autostima. E le ragazze sono ancor più vulnerabili, perché più esposte dei maschi a cyberbullismo e allo sviluppo di disturbi alimentari. Nell’epoca della vita in cui più si forma l’identità, lo sviluppo del cervello è particolarmente suscettibile a pressioni sociali e opinioni altrui». Come dire che fino a 150 era possibile gestirle, oggi oltrepassato quel numero e limite il cortocircuito è dietro l’angolo.

C’è anche un’altra questione. I social non rappresentano semplicemente un mezzo di comunicazione e relazione. Se ci riflettiamo bene capiamo come i social network siano mediatori relazionali in grado di modificare il nostro modo di entrare in relazione con gli altri codificando nuove prassi e costruendo nuove modalità. Di questo ne siamo consapevoli?

Come uscirne? Non esiste una ricetta. E forse anche la “cura Jokic” non rappresenta la soluzione. Certamente piccole strategie come mantenere i pasti e altri momenti di socialità familiare social-free per tutti, genitori compresi, può essere un primo piccolo passo. Esercizi di consapevolezza quotidiani circa la comprensione delle dinamiche attive sui social come le echo chamber o il confirmation bias possono essere strumenti preziosi da inserire nella propria cassetta degli attrezzi. In questo professionisti formati e docenti preparati possono fare la differenza. In uno scritto di metà novecento di Karl Popper dal titolo “Cattiva maestra televisione” il filosofo della scienza proponeva una patente per chi faceva TV come esercizio di consapevolezza in chi produceva contenuti editoriali. Avrebbe oggi senso una patente per i colossi del social come Facebook, Instagram, LinkedIn o Tik Tok?


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