7 giugno 2023
Bastano 10 minuti. 10 minuti è un’unità di misura ricorrente quando si ha a che fare con lo stress. C’è chi dice sia la durata perfetta di una call, chi sostiene che meditare almeno 10 minuti prima di ogni riunione rappresenti un toccasana per il controllo delle pressioni lavorative e chi si prenda i fatidici 10 minuti dopo ogni riunione per “staccare” il cervello e ricorsi (almeno un po’) in vista di quel che lo attende. Di 10 minuti in 10 minuti, poi, la giornata lavorativa arriva al termine. Ma basta quei 10 minuti a determinarne la qualità? Una qualche condizione di stress interessa circa il 22% dei lavoratori in Europa. È stato stimato che una percentuale compresa tra il 50% e il 60% delle giornate lavorative perse in un anno è correlata allo stress lavoro-correlato. Due facce della medaglia, da una parte il lavoratore e dall’altra l’azienda. Da una relazione dell’Eu-Osha (2014) emerge che il costo economico dello stress legato alla attività lavorativa in Europa è pari a 20 miliardi di euro all’anno (costi legati alla perdita di produttività, assenteismo per malattia, assistenza sanitaria ecc.) Il burnout è, appunto, un insieme di sintomi che deriva da una condizione di stress cronico e persistente, associato al contesto lavorativo. È generalmente accettato che le persone affette da burnout sperimentino enormi problemi e sofferenze. Maslach e Jackson definiscono il burnout come un costrutto caratterizzato tipicamente da tre dimensioni: * Esaurimento emotivo: sensazione di essere svuotati, logorati, inariditi; * Depersonalizzazione: atteggiamento distaccato, cinico, ostile, freddo dell’operatore nei rapporti con l’utenza; * Ridotta realizzazione personale: percezione della propria inadeguatezza nel lavoro. Vi ricordate i 10 minuti da cui eravamo partiti? Bastano davvero 10 minuti a prevenire una condizione del genere? Le professioni più colpite dal burnout Più il paziente è grave più il rischio di burnout è reale. E così le professioni che entrano in contatto con gravi disabilità mentali sono a forte rischio: i soggetti che non riescono a raggiungere certi obiettivi, che non inviano feedback, che non gratificano l’operatore, risultano essere molto stressanti. Fonti di stress risultano essere anche i rapporti con le famiglie e gli altri operatori professionali. Anche se non è esattamente una professione d’aiuto, anche il caregiver può essere soggetto a burnout. Sono coloro i quali assistono persone malate, generalmente familiari. Da alcuni studi emerge una differenza tra uomini e donne, le quali risultano essere più stressate, e tra laureati e non, i primi infatti sembrano più consapevoli della gravità della situazione. Sembra inoltre esserci un atteggiamento diverso, dipendente dal tipo di patologia di cui ci si occupa: infatti i caregiver di pazienti neurologici sono molto stressati, di meno lo è chi si occupa di pazienti oncologici, probabilmente per la consapevolezza della durata della malattia. Progetti di informazione e rieducazione possono aiutare il caregiver a capire ed affrontare il cambiamento del congiunto e ridurre lo stress. Gli operatori sanitari più a rischio sono coloro i quali si occupano di oncologia AIDS e pazienti sieropositivi (vale il medesimo ragionamento che si faceva in principio). Il reparto di oncologia soprattutto mette a dura prova gli operatori, in quanto fa si che si proiettino idee di morte a sé e ai propri familiari. Spesso esaurimento emotivo e depersonalizzazione sono più alti nei casi di pazienti oncologici adulti piuttosto che nei bambini. Infatti in questi ultimi casi si può avere un decorso più lento e maggiore speranza di ripresa. Anche la categoria degli insegnanti possono subire il burnout, nella difficoltà a rapportarsi agli alunni, nell’insensibilità verso i loro problemi, nella percezione di inefficacia del loro insegnamento; gli insegnanti di sostegno hanno maggiore probabilità di per via delle più ore di lavoro, stress, grado di disturbo dell’allievo. In generale dunque professioni in cui la ripetizione del fattore stressante è insita nel lavoro stesso possono generare alti livelli di stress. E in questo caso il ruolo delle buone (o cattive) relazioni sul posto di lavoro può essere determinate. E i nostri 10 minuti? Bastano a salvarci? Forse no. Forse dovremmo iniziare a pensare che 10 minuti che ci prendiamo da soli non possono cambiare il corso delle cose, ma sono le modalità di relazione e l’ambiente in cui lavoriamo che ci aiutano a salvarci e ci danno uno stato di benessere fondamentale per combattere lo stress. Aiutare queste relazioni e costruire un ambiente di lavoro sano è il compito di ogni datore di lavoro: lo deve ai propri dipendenti e collaboratori, alle loro famiglie e anche a sé stesso.
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